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Il mestiere delle armi

di Francesca Vercesi

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11 febbraio 2010
Cadetti a West Point


Per chi volesse rendersi conto della disciplina ferrea a cui sono sottoposti i cadetti della più prestigiosa accademia americana, suggerisco di andarsi a rivedere il discorso che il presidente Obama ha tenuto nella base americana di West Point lo scorso 1° dicembre, mentre annunciava la new strategy per l'Afganistan. E di fissare l'attenzione sui loro giovani sguardi, attenti e orgogliosi». È quanto afferma Leslie H. Gelb, presidente emerito e board senior fellow del Council on Foreign Relations, il think tank indipendente fondato a New York nel 1921, composto soprattutto da uomini d'affari e leader politici che studiano i problemi globali e giocano un ruolo chiave nella definizione della politica estera degli Usa.
Nulla è cambiato nel sistema di regole dell'accademia militare fondata da Thomas Jefferson nel 1802, cinquanta miglia a nord di New York, dove «si studia la storia fatta da coloro a cui l'abbiamo insegnata», come ribadiscono i professori, quasi in tono minaccioso, quando si trovano davanti quelli che vengono chiamati plebei o yuk, ovvero gli ultimi arrivati. Sono i cadetti della lunga linea grigia, massimo 23 anni, che studiano per diventare leader, impettiti, composti come gli hanno insegnato, capaci di sostenere lunghi silenzi, senza tradire mai uno stato d'animo, con un solo motto: duty, honor, country, dovere, onore, patria. Vita dura, quella di West Point, dove chi dice il falso, si dimentica di fare un compito o di lucidarsi le scarpe, ha in risposta il silencing, ovvero il silenzio da parte di tutti. Che può durare anche giorni.
Da qui sono usciti George Patton, Omar Bradley, Dwight Eisenhower, Norman Schwarzkopf e David Petraeus. Anni così duri che perfino il generale Douglas Mc Arthur, lo stesso che poi formulò il codice d'onore degli allievi («un cadetto non mente, non imbroglia, non ruba e non tollera coloro che lo fanno»), l'ultimo anno di corso scrisse in una lettera: «Per fortuna siamo alla fine». Sono in molti, infatti, a non reggere lo stress. Il giovane Edgar Allan Poe, per esempio, dopo un anno di continue intemperanze e ammutinamenti, fu espulso con disonore da West Point. Anche se da quel momento, il lungo mantello che copriva la divisa dei cadetti d'accademia divenne il suo capo d'abbigliamento preferito.
Qui ci si sveglia alle 5,50 del mattino, si rifà il letto alla perfezione, si piegano i vestiti e si allineano gli anfibi sotto la branda, tirati a lucido. Se qualcosa non è al suo posto, niente colazione. Poi cominciano le lezioni di quella che oggi è considerata, secondo la recente classifica di Forbes, la migliore università americana e che oggi dà ai cadetti una preparazione accademica di altissimo livello. Il pomeriggio è dedicato allo sport: si pratica quello prescelto ma alcune esercitazioni sono obbligatorie e dunque comuni a tutti, uomini e donne. Ore e ore di esercizi ed esercitazioni, tanto che la dieta prevede 4000 calorie al giorno per i primi, 3500 per le seconde. Alle 20, finita la cena, si studia fino a mezzanotte; poi tassativamente, si spengono le luci. In estate, per l'addestramento militare, si parte per qualche base sparsa nel mondo. Ruth Brown è stata in Iraq e Corea del Sud: «In certi momenti, ho davvero creduto di non farcela, tra marce che sembravano non finire mai, trasportando armi molto pesanti, notti all'aperto in ogni luogo, prove di forza fisica e psicologica massacranti», racconta a IL il capitano donna, una laurea a West Point conseguita nel 2003, da sei anni arruolata nell'esercito americano, in attesa di concludere un master in economia internazionale e studi strategici presso la Columbia University con l'obiettivo di tornare all'Accademia in qualità di professore di economia. La scuola è pagata dallo Stato e, una volta laureati, si diventa sottotenenti e si parte da un guadagno di 75mila dollari l'anno. Obbligatorio, però, prestare almeno cinque anni di servizio. La selezione è durissima: oltre a test di vario genere, per essere ammessi ci vuole una presentazione da parte di un parlamentare, tanto che solo il 10 per cento delle domande arriva a buon fine per occupare il migliaio di posti disponibili ogni anno. Nel 1964 il presidente Lyndon B. Johnson ha firmato la legge che portava il numero dei cadetti da 2.530 a 4.400 circa (l'apertura alle donne è del 1976).
Ma che cosa spinge un individuo a candidarsi a West Point? «Ho letto molte lettere di motivazione», racconta Bill Taylor, una laurea a West Point nel 1970, ora impegnato nel processo di selezione della scuola, il West Point alumni affairs admissions. «La maggior parte scrive: "Ho sempre voluto andare a West Point" oppure "Voglio diventare un leader" o ancora "Voglio servire il mio Paese". Non sembrano davvero motivati ma piuttosto influenzati dal volere di un genitore o di uno zio che magari ha un passato in West Point. Ecco, io lo posso dire. Non funziona così, qui si impara a fare la guerra. Il desiderio di venire all'Accademia di West Point e quindi di decidere di servire la propria Patria deve venire dal cuore».
«Alcuni di loro sono così assuefatti alla disciplina e inquadrati che sembrano aver perso ogni aderenza col mondo», commenta David Lipsky, americano di New York, reporter della rivista Rolling Stones e autore di Absolutely American sulla vita dei cadetti di West Point, senza intento politico né polemico ma dove si tratteggiano due mondi e due sistemi di valori: quello militare, dove si enfatizzano disciplina, onore, sacrificio, controllo ma anche tanta violenza e quello civile dove si dà spazio alla libertà di espressione, al piacere e al commercio. Per scriverlo, Lipsky ha passato quattro anni all'interno dell'Accademia potendo studiare da vicino la trasformazione di giovanissimi, che il primo giorno sono così stressati che tremano, fino al punto un cui «dimenticano il loro nome perché quello che conta è essere chiamati sottotenenti e saper gestire un intero plotone su un campo di battaglia», si legge nel libro di David Lipsky.
  CONTINUA ...»

11 febbraio 2010
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